Come tutte le cose belle, la Vecchia Osteria va cercata, desiderata, meritata. Difficile incontrarla. Deve essere una meta.

Castellino Tanaro

Castellino Tanaro, infatti, si trova lontano da Alba e dalle colline del vino, su un percorso secondario di raccordo fra la langa di Murazzano e la valle del Tanaro. Un piccolo paese dell’Alta Langa Cebana (circa 350 abitanti) che, nella sua essenzialità, annovera testimonianze storiche pregevoli (epigrafi funerarie in arenaria di età romana attestanti l’ascrizione alla gens Publilia), esaltate dalla svettante cilindrica torre medioevale, cantata dal Carducci come “l’esile torre di Castellino” ne La bicocca di San Giacomo. Predominanti sono le testimonianze religiose, distribuite lungo i secoli e non prive di interessanti opere artistiche.

I caratteri dei luoghi sono quelli tipici delle alte langhe: silenzi, naturalità, rusticità, semplicità. Così pure i valori identitari della gente: sobrietà, parsimonia, genuinità, fierezza. Valori a cui i Castellinesi assommano il pugnace coraggio, meritati in ragione di leggendarie e gloriose pagine di storia, riferite ai periodi della dominazione francese e alla Resistenza. Il paese è Medaglia di bronzo al Valor Militare per avere nel corso della guerra di Liberazione reagito «per lunghi mesi alla spietata aggressione nazifascista, tanto da meritare l’appellativo di “Comune e popolo ribelle”».

Una storia familiare

La storia della Vecchia Osteria è innanzitutto una storia contadina: la storia delle alte langhe dal Dopoguerra a oggi. Nel raccontarla, a Vilma si illuminano e inumidiscono gli occhi di orgoglio e di malinconia. Alle origini ci sono una fuga e un ritorno: la fuga nel 1962 a Torino di Sebastiano Forneris (1925) e Ettorina Zatta (1927), spinti dalla crisi culturale ed economica delle campagne e attratti dal posto fisso alla FIAT; il ritorno nel 1965 a Castellino mossi dalla nostalgia e dal cuore. In quello stesso anno si presenta l’occasione di rilevare il Circolo ENAL con annesso negozio di alimentari, a cui nel 1968 si aggiunge la censa. A gestirlo è Ettorina, coadiuvata dal marito nel tempo lasciato libero dai pochi campi e dalla piccola stalla. Il lavoro è tutto e viene prima di tutto. Anche Vilma (1963) e Mauro (1961), quando arrivano da scuola, prima ancora di mangiare, aiutano a servire ai tavoli. Ma la bella immagine dei clienti che mangiano alla stessa tavola degli osti, nei ricordi di Vilma, assume una nota di tristezza: «Mi ricordo bene questo particolare perché da bambina avrei voluto un po’ di intimità con la mia famiglia ma non era possibile. La priorità era il lavoro, io e mio fratello ci siamo dovuti adattare.». L’aiuto al papà nei lavori agricoli per Vilma è fortemente formativo: «Si lavorava il fieno in campagna; si raccoglievano le spighe di grano; si raccoglieva l’uva e naturalmente i chicchi caduti per terra … sempre naturalmente brontolando.».

Impara l’amore per la vita agreste e la gioia del lavoro. Impara che nulla si spreca: nemmeno un acino d’uva. La quotidianità dell’osteria è fatta di anziani, di partite a carte (scopa, tresette, “piscighin”…), di tanto vino dolcetto e di canti popolari fino a notte fonda: «Cantavano, cantavano e cantavano … Ciabatin bel ciabatin, Moretto Moretto, Mamma mia dammi cento lire e canti degli alpini.». E prosegue: «Mi ricordo la “Morra” un gioco dove battevano i pugni sul tavolo molto forte pronunciando dei numeri, litigavano spesso.». Si fuma e si mastica il tabacco, con le ovvie conseguenze: «Vedo ancora mia mamma passare tra un tavolo e l’altro con lo straccio e la conegrina.».

Ettorina è un’ottima cuoca: un dono naturale esercitato alla scuola della mamma Maria, per tutti semplicemente Nonéta, e arricchito nel confronto con le donne del paese. Generosa di consigli è Nita, la proprietaria dell’albergo, bravissima cuoca, soprattutto nel cucinare il cinghiale, un piatto all’epoca raro e apprezzato. L’osteria propone pochi piatti della tradizione casalinga di Langa, ma fatti alla perfezione. I fondamentali sono: tajarìn, ravioli, coniglio al civet, bonét. Tome e acciughe al verde non possono mai mancare.

In cucina comandano le stagioni contadine: frittate d’erbette e insalate di sarzét o girasoli con uovo sodo in primavera; minestroni di verdure dell’orto, meravigliosi sughi di pomodoro, carpioni di zucchine, bistecchine o pesce del Tanaro d’estate; tanti gnocchi quando si tolgono le patate e non si devono sprecare quelle tagliate con la zappa; polenta con cotechino fatto in casa, ossa di maiale bollite e rustiche bagne caode in inverno; il maiale dalle orecchie alla coda ai piutìn a gennaio. Con il boom economico arrivano il pipigas, il forno, il frigorifero e, verso la fine degli anni Settanta, la cabina del telefono pubblico. Ma è la televisione, comprata negli ultimi anni Sessanta, a cambiare i costumi sociali dei Castellinesi: per le serate del Festival di Sanremo anche le donne entrano in osteria, trasformata da Sebastiano in una sorta di teatro con panche e sedie. Con la Seicento, simbolo della motorizzazione italiana, arrivano i primi turisti da Torino e dalla Liguria. Per la Festa patronale della Madonna della Neve, festeggiata la prima domenica successiva al 5 agosto, il paese si riempie e l’osteria occupa tutti gli spazi disponibili. Sebastiano fa la spola tra il paese e la piccola stazione ferroviaria situata nella frazione Piantorre con un estemporaneo servizio di noleggio a disposizione di quanti arrivano con il treno. Al mattino, nell’antica e bucolica chiesetta, si celebrano i riti religiosi della messa e della lotteria del “foulard dla Madona”. Nel pomeriggio, piazze e vie si animano di sfide e di rusticano vociare. La ribalta spetta al balon, praticato alla lunga e alla pantalera, e alle bocce, mentre i giochi popolari della corsa nel sacco, della rottura delle pignatte e della “stima del crìn”, si pongono come “contorno”. A sera, è l’immancabile ballo a palchetto con una “scelta orchestra” a inebriare gli animi. I festeggiamenti proseguono il “lunedì della Madonnina”. Sono due giorni di febbrile lavoro: «Mia mamma preparava piatti di ravioli e secondi vari ininterrottamente… non veniva a dormire per due giorni, io avevo molta paura a dormire da sola.». Il vecchio potagé torna a essere indispensabile. Approfittando della confusione, per la piccola Vilma, incaricata di spreparare i tavoli, è anche l’occasione per assaggiare il vino avanzato nei bicchieri. Il menù si fa ricco: «C’erano l’insalata russa e il vitello tonnato, i ravioli, il gallo o la gallina bolliti, l’arrosto e naturalmente il bonét; mia mamma preparava anche una sorta di zuppa inglese molto veloce e facile da fare come dolce dell’ultimo momento.».

Ph Sergio Ardissone – Bruno Muraldo

La Vecchia Osteria

A fine anni Ottanta, dopo alcuni semplici lavori di rimodernamento ai locali, Vilma subentra ai genitori nella conduzione dell’attività. Il 13 febbraio 1988 nasce ufficialmente la Vecchia Osteria. Il passaggio generazionale è sereno: giacché Ettorina in cucina e Sebastiano nell’orto continuano a dare un grande sostegno. Ma alla giovane Vilma serve tanto cuore per far fronte alle prove della vita. Con la perdita, già nel 1989, dell’amato papà «Sento che mi manca il mio punto di riferimento e il mio scudo di protezione», tutti gli affanni famigliari vengono a pesare sulle sue spalle. Le cure degli anziani nonni e della mamma sono un dovere a cui non si sottrae, anche se ciò comporta sacrifici per il lavoro. Sono anni difficili anche per le alte langhe, che conoscono un forte spopolamento. Se Vilma non si arrende è solo in virtù di una stoica fortezza d’animo, dell’amore per la sua terra, della passione per la cucina, del senso di dovere verso le fatiche fatte dai genitori. La nascita di Paolo (1992) porta entusiasmo. Mentre ritrovate energie le giungono dall’incontro con Ezio e dall’arrivo del secondogenito Andrea (2005). Nel frattempo, anche le alte langhe vanno conoscendo il rinnovamento economico e culturale portato dalla forte crescita del turismo enogastronomico. L’arrivo dei turisti svizzeri, tedeschi e, più recentemente, olandesi risveglia attenzioni verso la cucina della tradizione. In tal senso, il 2013 è l’anno della svolta. In cucina, con la scelta affettiva e culturale della classica osteria di Langa secondo le ricette di Ettorina e “Noneta”. E anche in sala: «Mi aiutano mio marito, Paolo e Alice. Quando serve, anche Andrea. Per fortuna la nostra è un’osteria di Langa a cui si perdona l’inesperienza, specialmente se ci sono un sorriso e una buona parola». La cucina di Vilma ha un’anima. Perché è una cucina casalinga pura e incontaminata. È, sì, quella tradizionale di Langa, ma le ricette sono rigorosamente “di casa”: «La mia formazione è unicamente dovuta all’insegnamento di mamma, lei mi ha insegnato tutti i passaggi dei piatti, quei piccoli accorgimenti che fanno la differenza per la bontà e la riuscita del piatto.». A “Noneta”, classe 1892, si legano invece i sapori indelebili dell’infanzia: «Ricordo il suo ragù insuperabile: lo cuoceva in un tegame di terracotta sul potagé; lo iniziava alle otto perché doveva cuocere almeno quattro ore; un sapore unico! Un altro sapore che non dimentico è la crema che mi preparava a merenda: una specie di zabajone con il latte invece della Marsala.».

I piatti della tradizione

La pasta per tajarìn e ravioli, secondo la saggezza di casa, trova il suo equilibrio con tredici tuorli e due uova intere per ogni chilo di farina, un cucchiaio di olio di oliva e un bicchiere di acqua; il coniglio e il bonét sono segreti di famiglia; i modi di cottura «un patrimonio da salvaguardare». Stupendi sono i primaverili ravioli alle erbette, generalmente di tredici varietà (barbabuc, gallinelle, busòm, ortiche, zucche selvatiche, polmonaria, livertìn, primule, viole, scruscét …) che Vilma raccoglie personalmente. La preparazione è una preghiera contadina: «Per fare il ripieno dei ravioli: soffriggo il porro nell’olio, quando è leggermente rosolato aggiungo le erbette bollite, strizzate e tritate; rosolo lentamente insieme al soffritto e aggiungo il bollito tritato finemente; aggiusto di sale e pepe.». Sorprendenti le frittelle di formaggio (pasta di pane ripiena di formaggio e successivamente fritta in olio). La tavola di Vilma trova la sua esaltazione in autunno, con i funghi porcini, gli ovuli, il tartufo bianco d’Alba e il caminetto acceso. E con il sapore che più fortemente segna i suoi ricordi d’infanzia: i ravioli al sugo con il Tartufo bianco d’Alba. Il suo racconto è cultura di Langa: «Ogni anno, il giorno dei Santi un signore di nome Letu ci omaggiava dei preziosi tartufi bianchi. Il giorno dei santi è un giorno di festa e quindi sulla tavola c’erano i ravioli al ragù. So che è un abbinamento molto azzardato, ma per me è buonissimo.».
Ma Vilma e la “Vecchia Osteria” sono custodi di un sapore unico e prezioso, un sapore culturale legato inscindibilmente a Castellino Tanaro: quello della Lela. Si tratta di un pane povero a base di farina di grano, acqua e sale; non lievitato; dalla forma che richiama il lobo dell’orecchio. Cotta sulla piastra del potagé o direttamente nel focolare dentro uno spesso strato di cenere, suppliva alla mancanza di pane nei periodi di carestia o tra un’infornata e l’altra. Vilma le propone calde col burro, con i salumi casalinghi o con le stupende acciughe, selezionate da Ezio in virtù di competenze che gli derivano dal sangue di quattro generazioni di anciué della Valle Maira. Un sapore arcaico che ai tavoli della Vecchia Osteria non manca mai.

Nella Vecchia Osteria e nella cucina di Vilma c’è dunque un ingrediente principale: il cuore. Lo si coglie nella semplice garbatezza dei modi, nello sguardo, nelle parole. Lo si coglie fin dall’esterno: ci vuole cuore per avere resistito lassù. Lo si coglie nel benvenuto: sui tavoli non manca mai un fiore di campo o un richiamo alla stagione. Lo si coglie nel saluto: «Negli ultimi anni la Vecchia Osteria con le sue Lele e Castellino Tanaro si sono fatti conoscere oltre le mie aspettative. Mi fa piacere pensare a papà e mamma con le lacrime agli occhi di felicità che mi guardano e continuano a proteggermi da lassù.».

La Lela di Castellino Tanaro

L’epiteto che nella cultura popolare di Langa accompagna gli abitanti di Castellino Tanaro è “Lelon” o “Mangia lele”. Un soprannome che sarcasticamente richiama la povertà dei luoghi. La Lela, infatti, è un relitto culturale dei tempi della malora. Un elogio della sobrietà. Un sapore primordiale che sa di fuoco, di pane e di miseria. Si tratta di un pane povero a base di farina di grano, acqua e sale; non lievitato; oblungo dalla forma non forma che richiama il lobo dell’orecchio (il che rimanderebbe l’origine del nome al latino legula). Di facile preparazione, veniva cotto sulla piastra del potagé, nel forno o direttamente nel focolare dentro uno spesso strato di cenere. La cottura migliore era quella che veniva arricchita dal valore del tempo: dapprima abbrustolite sui cerchi roventi della stufa a legna in modo da formare una crosta, le lele venivano poi messe a cuocere sotto la cenere del focolare. Qui, avvolte da un calore uniforme e regolare, cuocevano anche internamente, senza perdere il piacevole contrasto tra croccantezza e morbidezza. Serviva a supplire alla mancanza di pane nei periodi di carestia o tra un’infornata e l’altra, nei tempi in cui la farina era più preziosa dell’oro e il pane veniva cotto solo il sabato nel forno comune. Il comune di Castellino Tanaro dal 1998 le dedica una sagra (metà giugno) e dal 2013 la valorizza attraverso la DE.CO. La Vecchia Osteria la propone calda col burro, con i salumi casalinghi o con le acciughe. Un sapore antico salvato dall’oblio, fragrante e terragno, intenso e scarno come le più belle pagine fenogliane sulla malora.

 

Luciano Bertello – “Alta Langa – Civiltà della Tavola e Genius Loci” Sorì Edizioni

LA VECCHIA OSTERIA via Roma 21 – Castellino Tanaro, Cuneo